Manifattura veneziana, Calice, 1550 circa. Murano, Museo del vetro
In alto e a lato: Caravaggio (Michelangelo Merisi detto il), Bacco, 1596-1597. Firenze, Galleria degli Uffizi
Nella produzione vetraria la ricerca di miscele e procedure di lavorazione nuove è spesso andata di pari passo con
la ricerca di una sempre maggiore trasparenza. Per lungo tempo a partire dal XV secolo convenzionalmente si definiva
cristallo quanto di meglio poteva fornire la produzione vetraria in fatto di trasparenza e purezza, anche se oggi,
a rigore, si dovrebbe usare il termine per il solo tipo di vetro a composizione piombica.
La pasta vitrea a disposizione dei vetrai muranesi nel Cinquecento, evolutasi dopo l’invenzione del cosiddetto “vetro cristallo”
di metà Quattrocento e molto vicina al cristallo piombico, era particolarmente adatta a una lunga e complessa lavorazione a
caldo. Grazie a ciò si ottennero oggetti per nulla condizionati, nelle forme e nelle decorazioni, dai limiti imposti da difficoltà
tecniche. È il trionfo di bicchieri, calici, coppe, brocche, dalle forme essenziali e dalle linee eleganti.
Essenzialità e pareti sottili di calici e vasi furono le caratteristiche che conquistarono anche i pittori del Cinquecento
e del Seicento. Trasparenze, giochi di luci, equilibrate proporzioni vennero via via esaltate da Tiziano Vecellio,
Paolo Veronese, Pieter Paul Rubens e da Caravaggio che, attraverso l’appena percettibile tremore del suo ebbro Bacco,
sembra trasmettere un sottile e velato invito.